17 Jun tempo.
Dipartimento Federale di Milano, 15 maggio 2713, ore 34:27
Sono seduto in cucina e mangio lentamente il mio piatto di formiche.
Intanto, penso a lei. La conosco solo da qualche settimana-standard, eppure mi ritrovo sempre a pensarla: a sentire che provo una profonda mancanza del suo corpo, delle sue parole e del suo sguardo.
Parlandole, noi due chiusi nella capsula del sonno, le ho confessato che trovavo piuttosto inopportuno ritrovarmi in quella condizione: a pensarla con quella instancabile costanza. Lei che dal canto suo non dice quasi mai niente – a volte l’ho ritenuta capace di sopravvivere senza neanche il bisogno di respirare – mi ha spiegato che è normale per un essere umano sentire la mancanza di un altro essere umano, specie quando i due esseri umani si sono conosciuti da poco tempo.
Di seguito, mi ha spiegato che noi esseri umani del contemporaneo siamo in tutto fatti come i calcolatori informatici di una volta, siamo dotati cioè di due dischi: una memoria fissa che raccoglie tutti i nostri ricordi storici e una memoria dinamica che ci serve per funzionare nei giorni-standard. La cosa buffa – diceva lei, mentre ci godevamo la fragranza di rame bagnato della nostra capsula – è che quando qualcosa, o in questo particolare caso qualcuno, si muove dentro al secondo disco, a noi questo qualcosa, questo qualcuno, appare più importante del resto, più vivo, come più necessario: più mancante quando assente.
Se dopo, questo qualcosa, o questo qualcuno, va a finire nel disco fisso, allora sì, diventa davvero importante per tutta la nostra struttura, si integra: si dice che fa di noi ciò che siamo – così diceva – ma, a quel punto, ce ne accorgiamo meno che questa cosa c’è, e quindi ne sentiamo meno la mancanza. D’altronde, non è che stiamo a pensare per tutto il tempo al fatto che abbiamo incastrato nel polso il chip del tempo libero o installato alla base dalla nuca il chip del lavoro – diceva – ce li abbiamo e basta – diceva.
Io avevo capito il punto, o almeno credevo di averlo capito, ma evidentemente sembrava di no. Allora lei, che era bellissima come una roccia plutonica effusiva, continuava, spiegandomi che dalle ricerche che aveva condotto sul Passato, aveva scoperto che nei vecchi calcolatori informatici, se avviavi l’installazione di un nuovo programma, questa operazione saliva di importanza rispetto a tutto il resto e veniva svolta per prima – e bada, mi diceva, che bisognava svolgerne tante di attività per tenere acceso e correttamente funzionante un calcolatore informatico. Finché non si chiudeva il processo di installazione, cento per cento, il calcolatore non pensava che a questo nuovo programma da integrare. Tutto il resto, per quanto essenziale, semplicemente veniva dopo. C’era ma non era considerato fondamentale, pur essendo fondamentale. Di non preoccuparmi, quindi, se sentivo questa forte mancanza: era solo un fatto di installazioni e sensazioni. Nella memoria fissa, infatti, stavano le cose fatte di sentimento, quelle per cui si generavano forme di apprensione di lungo periodo, mentre nella memoria mobile quelle fatte, appunto, di sensazioni, apparentemente più coinvolgenti, definitivamente, invece, più fugaci; e non bisognava mai confondere le due cose, mai e poi mai – sentimenti da una parte, sensazioni dall’altra – e questo specie quando si trattava di due esseri umani chiusi dentro ad una capsula del sonno.
Non potevo certo darle torto. Era, infatti, stato già stabilito dal Ministero della Salute Elettromagnetica e del Benessere Massimo, che i fatti sentimentali tra due persone erano da considerarsi malsani e superflui, e che fosse sufficiente vivere qualche sensazione disimpegnata, qui e lì tra una settimana-standard e una settimana-detraibile, per mantenere il soggetto umano in un incredibile stato di equilibrio psicofisico. Visto che per la procreazione – assolutamente proibita come scelta individuale – erano previste le apposite donazioni annuali, non era neanche necessario condividere gli spazi domestici regolari, se non per motivi di logistica emotiva, ma erano sufficienti le capsule del sonno, da prenotarsi attraverso specifico modulo almeno 36 ore prima del loro utilizzo che comunque non poteva superare le 72 ore. Nelle capsule del sonno, teneramente metalliche e del tutto spersonalizzate, si potevano passare tranquille ore spensierate, ore senza conseguenze: il massimo dell’amore moderno.
E questo è il massimo dell’amore moderno – così mi aveva detto, ribadendo che lei era davvero contenta di poter vivere in questa fenomenale epoca di sensazioni, e che le facevano un poco schifo i sentimenti. Quando si era stancata di parlare, si era addormentata cullata dal cigolare delle giunture saldate della capsula ed io l’avevo guardata per molto tempo, facendo scorrere lo sguardo sulle sue linee immobili da pietra antica come un goffo uccello di mare incapace di trovare in se stesso la fiducia per poggiarsi.
Adesso che sono seduto nella mia cucina e il piatto di formiche è finito e non ho nemmeno un gelato di alghe reidratate con cui distrarmi, mi tornano in mente quelle sue parole e avrei voglia di darle ragione, anche perché quando le do ragione, lei ride in un modo che mi manda da un’altra parte e, pur avendo accesso ad archivi tassonomici pressoché infiniti, io questo posto dove mi porta lei non sono ancora riuscito a trovarlo, a classificarlo, a dargli un nome. So solo che è sempre lì che voglio andare, sempre lì che vorrei stare. Perché lì mi sento così vicino a… devo smettere di pensarla. Si sta facendo parecchio tardi, ed è proprio ora di riprendere le ricerche. È da ore che non faccio altro che rimandare. Mi schiaccio compulsivamente il tasto d’accensione del chip del lavoro – devo farlo controllare quando ho un po’ di tempo: ultimamente fa una fatica incredibile ad avviarsi.
Reperto Numero 89kj167p
Descrizione: elemento di forma irregolare in materiale plastico sottile, da annoverarsi nel più ampio campo dei “frammenti”.
Simile a un ritaglio di carta, si presenta di colore codice #0f499d, macro-categoria dei blu, trasparenza al 40% circa.
Il frammento presenta due scritte di assoluto rilievo per la nostra ricerca: “TEMPO” è la scritta che occupa il maggior spazio nella parte alta (tutta in caratteri ex-maiuscolo, realizzata in bianco, colore codice #ffffff, macro-categoria dei bianchi); poco sotto, troviamo la dicitura “resistente al lavaggio” (tutta in caratteri ex-minuscolo, realizzata in bianco, colore codice #ffffff, macro-categoria dei bianchi).
Ho riportato la descrizione nel mio schedario con assoluta cura. Si tratta, senza dubbio alcuno, di un frammento strappato dall’involucro di quelli che gli abitanti del Passato definivano “fazzoletti di carta”.
Ne sono certo perché nell’ultima parte del mio Dottorato in Tassonomia degli oggetti del quotidiano e para-quotidiano antico avevamo condotto una proto-ricerca di grande spessore accademico rispetto ai materiali igienici usa e getta a destinazione umana. Anche non essendo di primario interesse per me, questi articoli e il loro relativo motivo d’essere non mi hanno più abbandonato. Qualche anno fa, infatti, ho pubblicato un saggio – tradotto poi in due lingue universali – nel quale ho illustrato quanti e quali materiali venissero impiegati per realizzare manufatti deputati ad un singolo utilizzo, concludendo il volume con 18 tesi aperte sulla filosofia dei materiali. Proprio su una di queste tesi il Ministero ha insistito quando mi ha commissionato questo nuovo studio.
Tesi aperta #16:
Nulla può essere davvero eliminato. Rimane sempre qualcosa, specie quando non rimane niente.
Devo scoprire cosa rimane quando non rimane niente: quel qualcosa è la verità. E l’unico modo per riuscire a vedere la verità è imparare a guardare. Chissà come la guarderebbe lei una cosa del genere.
Reperto Numero 89kj167p
Origine: si ipotizza che il frammento in oggetto sia una particella di un’entità più grande utilizzata per l’impacchettamento, la distribuzione e la conservazione di un numero fisso di pacchetti singoli contenenti un numero fisso di singoli fazzoletti di carta.
Datazione: metà 1900 – metà 2000.
Utilizzi: si rimanda alla voce “Fazzoletto di carta”.
Se fossi uno qualunque, uno dei tanti che studia e classifica il Passato – e oggigiorno facciamo praticamente tutti questo lavoro – non mi avrebbero chiamato per questa analisi. Il quesito è infatti annoso, la richiesta precisa e di affatto semplice risoluzione. Devo scoprire cosa rimane quando non rimane niente: quel qualcosa è la verità. Ecco come si riesce a cogliere l’essenza più profonda di quello che siamo stati. Come fare? Dal Ministero degli Affari Passati e Remoti, vogliono sapere cosa stava a significare questa seconda dicitura: “resistenti al lavaggio”. Questo è un caos di possibilità. Dalle mie pubblicazioni precedenti è evidente che questi fazzoletti di carta fossero oggetti relegati alla categoria dei materiali di consumo di poco conto, e allora perché tanta enfasi sulla possibilità di una loro resistenza fisica e fisiologica al lavaggio.
Bisogna premettere che, ai tempi a cui si fa riferimento, la pulizia degli abiti, della biancheria e degli accessori veniva effettuata direttamente in casa – e non come oggi nei nostri teatri pubblici, dove basta sopportare qualche ora di performance per avere in cambio vestiti puliti – con delle apparecchiature ben poco evolute denominate “lavatrici”: ne esistono dei reperti, credo ancora funzionanti, custoditi nel Transnational Museum di Londra. Ma perché li avrebbero dovuti produrre resistenti al lavaggio? Perché? Devo inviare un fascicolo con qualche ipotesi entro domani.
Reperto Numero 89kj167p
Possibili motivazioni alla dicitura “resistenti al lavaggio”: dopo attenti studi, ricerche, analisi e test empirici, possiamo affermare che la dicitura in oggetto era apposta sulle confezioni dei cosiddetti “fazzoletti di carta” per motivazioni legate alle seguenti ipotesi:
- i fazzoletti, se resistenti al lavaggio, potevano essere utilizzati nuovamente, non certo rinnovati, ma almeno nettati, nell’ottica di quel tentativo di vivere secondo regole più sostenibili, a quanto pare molto in voga al tempo antico a cui facciamo riferimento;
- i fazzoletti, se resistenti al lavaggio, evitavano di disintegrarsi, finendo in mezzo alle fibre di abiti ed accessori, provocandone il certo deterioramento, se non funzionale, quantomeno estetico.
Che pochezza. Ho spento il chip del lavoro. Funziona davvero male in questo periodo e, in più, mi sento senza alcuna ispirazione. Ipotesi così deboli, così improbabili. Dov’è finita quella mia capacità di comprendere appieno l’essere umano che fu? Dove se n’è andata la mia competenza impeccabile nell’immaginare la verità, nell’inventarla in elenchi ordinati? Cosa mi sta accadendo? L’unica cosa a cui riesco a pensare è lei. Accendo il chip del tempo libero: domani inizia una settimana-detraibile: potrei invitarla a cena e poi proporle di prendere una capsula del sonno qualche ora; potremmo programmarla per farla odorare di metalli in fusione, del centro della Terra, potrei toccarle i capelli, raccontarle di quando ho capito che gli esseri umani del Passato usavano la leva del “cambio” per orientare nello spazio i loro autoveicoli, facendo loro cambiare direzione (mi hanno dato un premio supernazionale per quel libro) o di quando ho scoperto che quelli che venivano comunemente detti “bicchieri di plastica” non erano altro che piccoli tamburelli con cui gli abitanti del Passato si rallegravano le nottate, danzando seduti e cantando assieme. La chiamo.
Dipartimento Federale di Milano, 19 maggio 2713, ore 32:04
Ho passato tre giorni con lei. All’inizio era spaventata e, a dirla tutta, lo ero anche io. Non si sta in una capsula del sonno in due per più di 24 ore, in genere. Ci siamo presi il rischio. Ci siamo presi insieme questo rischio. Abbiamo fatto l’amore. Tante volte. Quasi sempre con tutti i vestiti addosso; una delle volte avevamo troppa voglia e fretta, e allora l’abbiamo fatto nudi. Abbiamo mangiato torte di cera e respirato l’aria di ruggine dei nostri corpi. Ho scoperto che ci piacciono cose molto diverse, ho scoperto che ha dei sogni strani tutti suoi, immagini dai colori tenui. Mi ha raccontato delle sue ricerche attuali su un oggetto ancora parecchio misterioso che si chiama “modem”. Lei e i suoi collaboratori stanno cercando di capire a cosa servisse. Io più la ascoltavo e più sentivo che mi mancava sempre meno; lei parlava e mi mancava sempre meno, quasi per niente, sentivo che l’installazione stava arrivando alla fine, cento per cento, che le sensazioni erano ovunque, ma ormai c’era anche dell’altro. Lei diceva “router”. Io volevo dirle non andartene più. Lei diceva “porte DNS”. Io volevo dirle amore. Lei diceva “cavo ethernet”. Siccome, però, io ascolto le persone quando parlano, sapevo che se avessi confessato di amarla, così, lei avrebbe citato a memoria tutte le pubblicazioni del Ministero per farmi capire che poteva accettare ogni cosa, ogni cosa di questo mondo, ma l’amore no. Terrorizzato da questa possibilità, ho preso, allora, a raccontarle dei fazzoletti di carta. Le ho raccontato del ritrovamento del reperto, della lettera del Ministero, del mio incarico; le ho detto come la pensavo sugli involucri in generale e come la pensavo su questo involucro in particolare, le ho detto di come avevo condotto i miei studi senza successo fino a quel momento – della mia celebre pubblicazione sui bicchieri di plastica non ho fatto menzione perché non volevo sembrare uno spaccone – le ho detto che ero in un vicolo cieco e le ho chiesto cosa ne pensasse, anche se poi continuavo a parlare solo io. Lei, la vedevo che un poco si stava spazientendo, e infatti mi ha interrotto bruscamente e mi ha detto che era innamorata di me. Io ho capito tutto. Non abbiamo detto più niente sui fazzoletti di carta, ma io comunque, dei fazzoletti di carta e di molto altro, ho capito tutto e l’ho baciata disperatamente e le ho detto che anche io ero innamorato di lei.
Possibili motivazioni alla dicitura “resistenti al lavaggio” (segue):
- i fazzoletti resistenti erano un chiaro simbolo di status: solo alcuni membri della società potevano permetterseli; chi disponeva dei semplici fazzoletti di carta era a un livello sociale più basso, chi poteva permettersi l’acquisto di quelli durevoli era, al contrario, socialmente più in alto.
- i fazzoletti con possibilità di resistenza erano l’ossessione di certi scultori; durante il lavaggio, infatti, la carta assumeva forme e consistenze diverse e poteva seguentemente essere essiccata, dando vita a corpi pseudo-rocciosi ciascuno diverso dall’altro e quindi unico: da collezione (corollario: alcune persone del tempo – una specie di clan di medium visionarie tanto famose in quel periodo – promettevano addirittura di poter leggere in questi amorfi oggetti il futuro di chi li aveva lavati).
- i fazzoletti, forti delle loro caratteristiche di resistenza, potevano garantire la conservazione di prove indiziarie nei processi delittuosi: anche lavandoli, per l’assassino non ci sarebbe stato scampo.
- i fazzoletti intrepidi evitavano di finire in pezzi nei tubi della macchina elettrodomestica detta “lavatrice”, non creavano intoppi nel lavaggio quindi, non intasavano i tubi, non producevano danni e rotture, ma garantivano la buona vita dell’impianto di pulizia.
- i fazzoletti acqua-immuni potevano essere utilizzati come nascondiglio temporaneo di piccoli elementi altri, bastava costringere l’elemento nel centro della carta, impacchettarlo come si poteva e poi tenerlo nella macchina lavatrice anche per giorni, senza che nessuno potesse scoprirlo (addenda: si ipotizza che sia esistito un giro illegale di conservazione e scambio di sostanze erbose, quali il basilico o il timo, tutto basato sulla gestione resistente dei fazzoletti).
- si trattava di un gioco, definito “PassaTempo”, e cioè la dicitura sull’involucro non era altro che una sfida: resistenti al lavaggio, ma sarà vero? E così, le famiglie potevano passare degli allegri pomeriggi domenicali a verificare che effettivamente i fazzoletti si salvassero dalla centrifuga (ipotesi aggiuntiva: nel pacco dei fazzoletti supponiamo ci fossero anche delle tavole esplicative di tutte le regole del gioco e di eventuali sistemi premianti).
Dipartimento Federale di Milano, 12 gennaio 2714, ore 28:15
Mi hanno chiamato da Stoccolma ieri mattina. La pubblicazione sull’involucro dei fazzoletti ha stordito gli accademici: in aprile mi consegneranno il Premio Tesla ex-Nobel per il Passato Remoto. Quando l’ho chiamata per dirglielo, lei non poteva crederci. Adesso vive con un altro in un quartiere a nord del Dipartimento: vivono assieme perché lui ha grossi problemi di autostima. Alla fine, non era vero che si era innamorata di me, era stata solo vittima di un eccesso di sensazioni. Sono cose che capitano. Io no: io mi ero innamorato davvero; ma quando ti chiamano per avvisarti che ti consegneranno un Tesla ex-Nobel in aprile, non è che puoi stare a frignare per una cosa come i sentimenti. Quello che abbiamo fatto assieme, però, io e lei, prima di darci il nostro cinque alto d’addio, è stato consegnare una proposta di legge al Ministero della Salute Elettromagnetica e del Benessere Massimo per chiedere di concedere, a due persone che ne hanno bisogno, di innamorarsi – o solo di fare finta per un po’ – così da ritrovare la fantasia e poter continuare a immaginare, a dovere, il Passato e i suoi misteri.