23 Jun ovunque proteggi.
“Adesso e per quando tornerà l’incanto, l’incanto di te, di te vicino a me.”
(Vinicio Capossela)
Oggi l’aria pesa come trecentomila buste della spesa – una spesa che non c’avevo voglia – appese da qualche parte dentro l’anima. Mi trascino da un angolo all’altro di una città che non riconosco più. Mi succede da sempre, in realtà. Sono quasi sessant’anni che vivo a Milano. E, ogni tanto, io mi perdo. Mi perdo e basta, senza che state lì a sprecar tempo a domandar perché. Ho già mancato due appuntamenti, bene così. Non sono in grado di sopportare nessuna conversazione. Tengo fede solo a un incontro: un pranzo da qualche parte in centro con mio figlio. Pier Paolo frequenta l’Università. S’è appena trasferito in una stanza sua. C’ha addosso quella grandezza inutile dei giovani, un’adrenalina di cui conservo nel cassetto dei calzini un imprecisato ricordo a righe. Pier Paolo è bellissimo, e pensa troppo in fretta. Non avrà vita facile. Io lo so, ma non glielo dico. Provo solo a ascoltare i suoi sogni, prendendoli tutti molto sul serio. Durante il pranzo mi domanda il perché di quel mio spaesamento totale e lampante. Gli ripeto che sono stanco. Gli dico quell’unico tipo di bugia che sono stato capace, in vita mia, di dirgli. Una mezza verità. È vero: sono stanco morto. Ma è che ieri notte l’ho sognata. Non mi succedeva da un paio d’anni. Pier Paolo mi molla al tavolo, ché deve vedere Martina. Io non posso competere con Martina, mi pare di capire. Mi squilla il telefono, non rispondo. Non voglio rispondere. Inizio a vagare, prendo il Naviglio. L’ho sognata ch’eravamo sdraiati. Aveva i capelli corti, gli occhi grandissimi. Tra le mani perfette stringeva un orologio antico d’argento. Me lo passava sorridendo. Poi mi baciava dietro l’orecchio, e spariva. Del sogno mi ricordo soprattutto l’odore. Non la vedo da dieci anni, e tutto quello che mi ricordo, veramente, è solo quell’odore che c’aveva. Non la vedo da dieci anni. Non ho mai raccontato a nessuno di lei. Né di quando è arrivata, né, alla fine, di quando se n’è andata. Non ho raccontato a nessuno di quanto la amavo, di quanto mi piaceva, di quanto m’ero sentito sollevato quando l’avevo abbracciata la prima volta. Quando se n’è andata, ho fatto finta di niente. Ho portato Pier Paolo a scuola. Ho lavorato. Mi sono ripetuto per dieci anni che era stato giusto così. Il telefono continua a squillare. S’è spento. Entro in un bar per vedere se me lo fanno caricare. Ordino un caffè. Aspetto che il telefono si riaccenda. Nel bar ci sono un bambino che mi fissa e una donna, appena in ombra, che legge un libro. Mi portano il caffè. Sposto male il braccio, la tazza cade, il caffè s’arrende verso i miei pantaloni. Caccio un verso. Il bambino ride, la donna alza gli occhi dal libro, esce dalla penombra. Mi guarda. È lei. È lei. Ci guardiamo fissi negli occhi e ci diciamo dieci anni interi di silenzi, d’assenza, di rovinosi fallimenti e di grandiose mediocrità. Ci togliamo varie volte i vestiti di dosso e facciamo l’amore disperati, piangendo. Ci corriamo incontro centomila volte abbracciandoci e riempiendoci il collo di baci. Ci facciamo tutti i regali di compleanno. Ci raccontiamo quattromila giornate passate a fare cose che non servono a niente. Ci facciamo le foto in vacanza. Ci ubriachiamo senza nessuna ragione. Comperiamo una macchina. Cambiamo le lenzuola del nostro letto di sabato mattina. Facciamo la spesa di lunedì. Ridiamo fortissimo. Mi perdona un tradimento. Mi lava i capelli. Mi porta all’ospedale il giorno che mi rompo un braccio. Mi calma tutte le cazzo di volte che mi fanno incazzare. Facciamo l’amore la mattina. La porto al mare tutte le volte che me lo chiede. Facciamo l’amore il pomeriggio. Le regalo dei vestiti bellissimi. Facciamo l’amore la notte. Le strappo a morsi diverse paia di mutande. Dieci anni. Tutti e dieci. In una manciata di istanti. La grandezza di certi amori non sta nel tempo che durano, ma nella loro capacità di decidere la durata del tempo. Un secondo, e ci succede tutto. Senza che nessuno dica niente. Senza che nessuno dei due si muova. Poi dopo io le invecchio davanti e torniamo qua. Le scende una lacrima netta dall’occhio sinistro. Non la asciuga nessuno. Nemmeno io. La porta del bar cigola forte. Entra un uomo. Il bambino gli corre incontro. Lei si alza. Tira su il libro, la sua gonna azzurra come un venticello fresco di maggio. Bacia l’uomo sulle labbra. Escono tutti e tre assieme. Nell’aria quell’odore forte da impazzire. E allora adesso lo faccio, adesso esco anch’io e la stringo e la costringo a non andare via mai più. Ma il telefono riprende a squillare. Era giusto così.
(Illustrazione di Maurizio Anzeri)