31 Jul le gambe.
Per un tempo molto lungo, senza neanche averne grande coscienza, ho vissuto facendo corrispondere totalmente il mio essere con la mia testa, col mio caro cervello. A quel tempo, tutto doveva essere pensato, analizzato, compreso, restituito all’esterno solo dopo una tremenda vivisezione emotiva, dolorosa a tal punto da essere autoinflitta in uno stato perenne di masochistica trance, una cosa inverosimile, un cortocircuito assurdo, giacché, e per paradosso, quella forma di espressione da ritenersi – secondo logica – l’estrema sintesi della migliore forma possibile di razionalità, finiva per precipitare in gesti e parole narcotizzate, finiva per succedere in una lista consistente di cose scriteriate, finiva – senza finire mai – dentro uno scenario dominato, e perciò privo, di senno. Usare solo la testa è il modo peggiore per usare la testa che possa venire in mente a un essere umano. L’insostenibilità di quel processo ha costretto l’io di dentro almeno a considerare altri pezzi di sé sui quali provare a fare affidamento per esserci in una maniera più assennata. Non è stato difficile – pur essendo difficilissimo – intuire che alla testa andava aggiunto qualcosa. Il Novecento come secolo in cui nascere, ha dato abbastanza letteratura, da portare un individuo a pensare che fosse – di nuovo a logica – il cuore, quell’assente tanto sentito che poteva, con buona pace del cervello (che è e resta un figlio unico e petulante), completare la dicotomia fino a quel momento irrisolvibile e stordente. Dunque, si poteva anche (provare a) sentire, oltre che (provare a) capire. Accettare di sentire. A tutto quel quadro di insopportabile razionalità, veniva perciò aggiunto un elemento che rendeva di fatto tutto più autentico, ampio ed esprimibile; non più semplice, ma certamente più equilibrato. Sono seguiti anni di tentativi – non sempre riusciti, questo lo si deve dire – di collaborazione inaspettata, di riconoscenza, di competizione e lotta, di prevaricazione, resa, silenzio. A volte la testa non ha voluto sentire storie, a volte il cuore ha agito di nascosto. Si sono aiutati, si sono ostacolati, si sono ubriacati per arrivare al giorno dopo, hanno pianto di comune accordo, sono stati contenti in posti diversi, si sono consolati, abbracciati, urlati in faccia. Sono stati presenti, costruendo assieme quello che senza voler fare uno sforzo inutile, possiamo definire tranquillamente una forma personalissima di coraggio. Poteva finire qui. Ma non è così che è andata. Nelle ultime settimane continuavano ad arrivare richieste parecchio particolari. Arrivavano da dentro, arrivavano da fuori. Arrivavano. La testa le filtrava rapidamente poiché in queste istanze non c’era niente da capire. Il cuore se ne disinteressava altrettanto in fretta perché, a tutti gli effetti, non c’era niente da sentire. La novità. Il nuovo è così che si manifesta, ho pensato. Nessuna massa incomprensibile e confusa da passarci in mezzo, da passarci sotto, da starci dentro. Piuttosto una distanza, l’idea di una distanza, un vuoto eccezionalmente collocato da un’altra parte, la sensazione di aver bisogno di una pazienza, di una resistenza, di un equilibrio più meccanico che emotivo. Nel silenzio terribile di un’innovazione sorprendente, è successo qualcosa a livello delle ginocchia, una cosa che era fatta di tornare. Le gambe. Quest’altra parte, che è già un due unito – se si è fortunati – e senza bisogno di eterne sfinenti contrattazioni. Questa parte, così spudoratamente non vitale, questa parte così educatamente trascurabile: una parte fatta per piegarsi; una curva potenziale. Questo significa essere gambe. Significa sacrificio e fatica, significa piegarsi, reggere; farlo sicuramente per un motivo, non aver paura di intaccare la forma e non solo il contenuto. Queste cose, le gambe, dimenticate in fondo al corpo, che fanno della razionalità meccanica il loro fondamento e della volontà appassionata il loro motore. Queste cose che ci tengono attaccati, in ogni caso, a terra. Queste cose che sono una sintesi così meravigliosa da essere per la maggior parte del tempo invisibile. Non è certo nuovo quello che sta capitando. Ho memoria di tanti passi. La testa ricorda chiaramente tante rinunce in cui sono state le gambe a invertire, davvero, la rotta. Il cuore inventa numerandole a caso tante notti in cui quello che è successo è successo perché le gambe l’hanno raggiunto. Il cervello, a volerlo sforzare, ha ancora incamerati i dati legati a quanto hanno dovuto tenere quelle due gambe per restare ferma. La pancia scrive spesso, senza saperlo, cosa ha sentito quando le gambe hanno determinato la grandezza, in metri, di un’assenza. Non è certo nuovo quello che sta capitando. Succede solo che a volte non c’è niente da capire, e neanche da sentire, forse perché tutto è stato già riassunto, ordinato, dentro una scelta (originale o meno conta davvero poco) e non c’è più niente a cui pensare, ma bisogna solo andare. Penso sia anche per questo, che in momenti di confusione epocale, alle persone venga da fare due passi. Due. Solo due, per ricordarsi com’è che funziona. Esco.
(Illustrazione di Daniela Gallego)