27 Jan fa diesis minore.
Ti ho sempre sminuito perché non mi veniva da scrivere niente a proposito di te. Le tue mani cucinavano cose, cambiavano canali, aprivano un armadio; non uccidevano draghi, non erano alchimiste a nessuna ora del giorno, né della notte: non ridestavano biondissime principesse da nessun sonno. Solo mani. I tuoi piedi camminavano per arrivare, per andare e mai che abbia fatto la differenza; mai che abbia evocato qualche epica partenza, men che meno qualche straordinario ritorno. Non mi veniva da scrivere niente, giacché quello che c’era da accadere non la finiva mai di accadere. Non c’erano assenze buone abbastanza da fare troppo male. Non c’erano silenzi densi a sufficienza da appoggiarci la testa e piangerci sopra, niente interruzioni da ricongiungere disperatamente con fili di lana e trame improbabili di fantastiche avventure a fumetti. Non c’erano distanze così grandi da infilarci dentro supposizioni, lotterie; nessuno spazio da bordare con scelte divergenti, con assoluti codici binari coi quali siamo abituati a programmare quello che non siamo in grado di prevedere. Nessun futuro anteriore in cui declinare frasi armoniose, racconti di fantascienza, incredibili finali. Non c’erano vuoti di struttura o esigenze di ruolo tali da richiedere il ricorso a trovate narrative, a ricicli ossessivi di meccanismi da favola, di lieti fine doverosi, di nemici sul cammino come unica ragione del proprio esistere. Diavolo, niente da scrivere. Mai niente. Tu là. Nessuna parola asincrona. Tutto a tempo: il loro. Tutta improvvisazione, che a volte ha fatto ridere, a volte no, ma più che altro sì. E non la finivo di sminuire questo senso così leggero e facile che c’avevano le cose, questo vivere senza perder pomeriggi interi alla ricerca di metafore stupefacenti, ma più che altro azzeccate. Questo avanzare incauto scevro dalla sempiterna responsabilità di esser diventati il correttore di bozze della propria esistenza. Rivedere, togliere le virgole, rimettere le virgole, cancellare: basta, la rifacciamo. Limare il presente fino a essere esausti, nella vana speranza che qualcosa sarebbe capitato prima o poi. E invece, non succede niente. Perché esiste una distanza tra il foglio e la vita, che poi è una distanza che esiste tra me e te: una distanza necessaria a far sì che non esista una distanza. Uno spazio largo una cucina, forse qualche metro quadro in più, dove c’è una bella musica e poi ci stiamo io e te, che non balliamo nessun ballo, stiamo fermi. Io e te così poco interessanti che, per una volta, ci lasciano stare; così poco interessanti che, per una volta, ci lasciamo stare pure noi, e ridiamo nel buio, io e te felici nel buio, felici senza scarpe, felici senza niente, che ce ne facciamo in silenzio le cose da adulti, pianissimo, e che io sia maledetta se racconterò mai a qualcuno di che cosa si tratta. Perché esiste una distanza tra il foglio e la vita, una distanza benedetta che stasera mi autorizza a scriverti senza avere niente di niente da dire.